L’oppressione razziale e il mantenimento in stato di minorità di parte della forza lavoro mediante la negazione dei documenti sono due caratteristiche del sistema economico e politico contemporaneo.
L’alternarsi dei governi progressisti e conservatori, in Europa come negli USA, porta all’allargarsi e al restringersi delle finestre entro le quali la componente senza documenti del proletariato può aspirare a ottenere gli stessi o, per lo meno, ad essere un po’ meno vessata dalle forze di polizia.
Vi sono diversi motivi per cui nessun governo ha mai messo in discussione alle radici questo sistema: la necessità di mantenere una componente fondamentale della forza lavoro, ma potenzialmente riottosa, in stato di ricattabilità; la volontà di dividere la classe su linee di
demarcazione imposte dallo stato; il poter agitare lo spauracchio securitario del “crimine portato degli immigrati” e le banderuole identitarie.
Fatta questa premessa d’ordine generale passiamo alle specificità del caso statunitense. Nel corso degli ultimi 40 anni, dalla presidenza Reagan, il numero di deportazioni è aumentato, con il picco negli anni della presidenza Clinton, un calo durante il secondo mandato Obama per poi aumentare con la prima presidenza Trump, e continuare la sua ascesa durante il mandato di Biden. Possiamo affermare che siamo di fronte a una politica bipartisan. E affermiamo ciò sia davanti alla propaganda trumpiana, quella secondo cui Biden faceva entrare immigrati dediti a cibarsi con animali domestici, sia a quella democratica di questi giorni, che dipinge le deportazioni come opera di un’amministrazione apertamente razzista. È da notare come l’aumento della violenza nei confronti della componente migrante della classe proletaria sia avvenuto con l’affermarsi definitivo delle politiche neoliberiste, dall’amministrazione Reagan in poi.
Vi sono delle differenze tra governi progressisti e conservatori: i primi tentano il più possibile di rendere invisibile, e quindi accettabile al loro elettorato, la violenza; i secondi la glorificano.
Con ambo gli schieramenti al comando abbiamo visto aumentare il dispositivo di militarizzazione del confine, la costruzione di centri di detenzione amministrativa, la pratica di dividere i nuclei familiari (con il corollario di minori scomparsi), l’aumento del budget a disposizione dell’ICE. L’aumento dei finanziamenti per le campagne di repressione e controllo dei lavoratori migranti ha permesso l’introduzione di sempre più raffinate tecnologie di controllo, ideate e gestite direttamente da quel complesso militare-digitale che si è affiancato al tradizione complesso militare-industriale. Palantir ha venduto i suoi sistemi di analisi e sorveglianza digitale, quelli che permettono l’integrazione tra basi dati governative e private per individuare le persone che l’ICE dovrà arrestare. Ma non solo Palantir: anche Microsoft e Google si sono arricchite fornendo servizi informatici all’agenzia federale dedita alla persecuzione dei senza documenti. E anche al di fuori delle grandi aziende del settore esiste una miriade di imprese che forniscono supporto tecnologico al lavoro dell’ICE, come quelle che forniscono i braccialetti elettronici che alcuni immigrati in attesa che la loro richiesta di visto venga validata o meno sono costretti a indossare. In alcuni casi chi fornisce questi servizi non fornisce solo la piattaforma tecnologica ma ha anche la delega a gestire direttamente il rapporto con le persone in attesa di documenti.
In questo si assiste a un cambio di paradigma: nel periodo d’oro “classico” del complesso militare-industriale, quello dei McNamara, mai erano state delegate direttamente delle funzioni di polizia o delle funzioni militari alle grandi imprese del settore, ma queste si limitavano a fornire materiale, capacità di progettazione e manutenzione. Ora vediamo sempre più il settore digitale incistarsi in profondità nella macchina statale. L’abbraccio tra capitale e struttura statale si fa sempre più ferreo.
Alcune particolarità della situazione statunitense vanno segnalate. Le città santuario, ovvero le città dove i regolamenti federali che limitano l’immigrazione non vengono applicati, o meglio, vengono
applicati in forma attenuato, sono le città in cui la componente senza documenti fornisce parti importanti della forza lavoro in settori quali quello manifatturiero, agricolo, servizi alla persona e servizi di pulizia e manutenzione. Queste città sono città a guida democratica, in stati a guida democratica. Eppure il governo federale anche quando era a guida democratica ha, tranne nel secondo mandato Obama, proseguito nella politica di criminalizzazione dei senza documenti. La contraddizione è solo apparente: le leggi federali che regolano visti di soggiorno e cittadinanza permettono di mantenere in una posizione di forte ricattabilità la forza lavoro migrante. Dal momento in cui questa dovesse alzare la testa o diventare in sovrannumero potrà essere perseguitata nelle città santuario così come nel profondo Sud saldamento repubblicano.
Vi sono anche altre considerazioni da fare, sopratutto sul confine meridionale degli USA. New Mexico, California e Texas sono stati conquistati dopo la guerra statunitense-messicana a metà del XIX secolo e buona parte della popolazione di lingua e cultura messicana che viveva in quei territori è lì rimasta, acquisendo la cittadinanza statunitense nel corso degli anni successivi ma mantenendo anche legami con il Messico.
Questo ha conferito fin da subito una caratteristica di “porosità” del confine meridionale, con costanti scambi commerciali e flussi di migranti messicani richiamati dalle richieste di lavoratori nel settore agricolo, per quanto concerne la California, e del bestiame (lo stesso bestiame che poi si avviava verso i macelli di Chicago che sfamavano la popolazione in crescita) per quanto riguarda Texas e New Mexico, ma anche scambi culturali che ancora oggi definiscono quella parte degli USA. Anche le elitè ispanofone di quei territori si sono integrate nel corso degli anni nella classe dominante statunitense.
Questo fa anche sì che le migrazioni, anche solo su base stagionale, siano state una caratteristica costante di quelle zone; la situazione si è modificata negli ultimi decenni quando a fianco dei tradizionali flussi messicani si sono aggiunti i flussi dai paesi centro-americani, sud americani e caraibici. La componente chicana della popolazione è autoctona di quelle parti degli USA e non un corpo estraneo come viene rappresentato dalla propaganda, sia essa tesa all’assimilazione o alla segregazione.
Ancora differente è la componente ispanofona di origine cubana presente sopratutto nello stato della Florida. Per quanto questa, come le altre, rientri nell’ampia categoria di Latinos, in questo caso si tratta di persone scappate dal governo cubano, alcune subito dopo la rivoluzione che depose Batista, altre in anni più recenti. In molti casi si tratta di persone che hanno ricevuto un trattamento lievemente favorevole in nome della lotta al comunismo e che hanno acquisito la cittadinanza. In molti casi votano per il GOP e alcuni esponenti, come Rubio, sono arrivati ad alte cariche statali e sono stati candidati papabili nelle primarie del partito dell’elefante.
La componente chicana della popolazione della California meridionale pur essendo da sempre presente sul territorio, nei fatti sono i primi insediatisi dopo le tribù native, è stata mantenuta in una posizione subordinata rispetto all’immigrazione di stampo WASP, come da prassi nella gerarchia razzializzata tipica della società statunitense. Nel corso degli anni vi sono stati periodi di lotte piuttosto intensi, come la Chicano Moratorium, intenso ed esteso movimento di protesta antimilitarista e pacifista durante la guerra nel Vietnam. Come viene ben descritto da Davis e Wiener in “Set the Night on fire – L.A. in the sixties” (Verso Books, London – New York 2020), fondamentale libro che ricostruisce la storia dei movimenti sociali nella metropoli degli anni ’60 e primi anni ’70, la comunità chicana di Los Angeles nel corso del Novecento aderì con una certa spinta patriottica alle guerre statunitensi, Prima e Seconda Guerra Mondiale, ma anche al conflitto in Corea. Questa spinta patriottica tuttavia si esaurì e mutò di verso nel corso degli anni della guerra del Vietnam, dando origine a un grosso movimento di contestazione a carattere antimilitarista che sottolineava come la comunità pagasse un importante prezzo di sangue in una guerra che non sentiva come propria e che vedeva come di esclusivo interesse della classe dominante. Una tesi dello stesso segno la si trova nei gruppi militanti afro americani del tempo così come nei settori politicizzati, all’epoca però estremamente marginali, della classe operaia bianca. La presenza di strutture comunitarie che si sono mantenute nel corso dei decenni ha permesso il mantenimento di forme di memoria di quelle lotte anche negli anni seguenti.
L’esplosione delle proteste nel giugno di quest’anno è l’emergere di quel fiume carsico di radicale contestazione della struttura sociale USA la cui esistenza abbiamo sottolineato già in altri articoli (“Tradire la razza bianca significa essere leali verso l’umanità”, Umanità Nova numero 21 anno 100, e l’opuscolo “The age of quarrel – la crisi statunitense vista attraverso la lente dell’anarchismo sociale” pubblicato nel novembre del 2020).
I movimenti sociali hanno già dimostrato di essere in grado di mettere in crisi le politiche suprematiste della classe dominante. Il movimento contro la brutalità della polizia ha mostrato la sua forza all’epoca di Ferguson ed è riemerso in modo poderoso, e con istanze ancora più radicali, durante la prima presidenza Trump; da movimento a prevalenza afro-americano è diventato movimento che ha rotto gli argini della divisione di classe coinvolgendo settori della classe lavoratrice bianca, sopratutto nelle sue componenti giovanili.
Durante la Floyd Rebellion, durante la rivolta di Ferguson e durante gli le sollevazioni di inizio giugno 2025 si è potuto vedere come i dispositivi di contro-insurrezione non siano stati solamente quelli polizieschi, oramai sempre più militarizzati, ma anche quelli messi in campo da parte di quella miriade di organizzazioni e di ONG di attivismo professionale, dediti alle mediazione e al recupero delle istanze più radicali, che sono la branca sinistra del capitale.
Negli USA, molto più che in Europa e in altre parti del mondo, il sottobosco di queste organizzazioni è esteso e ha ampie capacità economiche e organizzative, essendo legato al Democratic Party. Se all’epoca di Ferguson avevano avuto ancora qualche legittimità durante la Floyd Rebellion, sono state molto più messe ai margini e neutralizzate non solo dalle modalità radicali di appropriazione dello spazio pubblico messe in atto da chi scendeva in strada, ma dal fatto che la natura nefasta del loro operato è oramai riconosciuta come tale non solo dalla minoranza agente militante ma anche da settori sempre più ampi dei settori razzializzati della classe lavoratrice. Sia a Los Angeles che a Minneapolis, ma anche nella piccola ma radicale manifestazione svoltasi negli stessi giorni ad Austin, questi recuperatori di professione sono stati ignorati e, nei fatti isolati.
Nell’ultima decina di anni si è visto un certo riemergere delle istanze del sindacalismo di classe negli USA, con importanti lotte sia nel settore dei dipendenti pubblici (insegnanti), nel manifatturiero(settore automobilisticoo) e sopratutto nell’economia dei servizi (logistica e ristorazione) come anche tra i lavoratori in stato di detenzione (vedi “Questione carceraria e lotta di classe” pubblicato sul Umanità Nova 21 anno 98 e “La lotta degli insegnanti del West Virginia” sul numero 19 anno 98). Ne corso degli anni in molti stati sono stati imposti dalle lotte salari minimi di 15 USD orari, una conquista ora mangiata dall’inflazione. È proprio sull’intersezione del piano economico con quello dell’oppressione di razza, su cui pure era cresciuto il movimento del 2020, che potrebbe aprirsi una crisi interna difficilmente gestibile dall’amministrazione Trump. È da vedere se le rivolte di Los Angeles e Minneapolis, che hanno direttamente messo in crisi l’ICE, garante manu militari dei principi del suprematismo bianco, sono un modello che si estenderà a livello federale.
Lorcon